Philippe Daverio accompagna il lettore in alcune riflessioni sul passato della vecchia Europa e sulla relativa eredità intellettuale. Il presupposto su cui si basa l’autorevole voce del tuttologo Philippe, qui soprattutto in veste di storico dell’arte e di antropologo culturale, è che l’Europa è la nostra casa comune. Ne deriva che necessariamente il vecchio continente condivide la visione del mondo con uno stesso linguaggio artistico, musicale, architettonico e, perché no, gastronomico. Daverio parte dal pensiero di alcuni grandi maestri dell’Ottocento e del Novecento, che già immaginavano un’Europa unita, per poi concentrarsi su alcuni precedenti periodi storici. Risalendo dal Medioevo al Rinascimento e poi ancora al Settecento, con l’intento di dimostrare e approfondire differenze e contaminazioni fra i vari Paesi europei.
Lo stile della scrittura usato nel libro, per stessa ammissione dell’autore, potrebbe sembrare leggermente schizofrenico. Diversamente il contenuto trattato, che segue una sua logica, anche se molto articolata, a volte baldanzosa, certamente irresistibile nella sua sfacciataggine. Nel testo sono state riproposte quattro conferenze tenute al teatro Carcano di Milano, a volte mantenendo lo stile tipico della lingua parlata con la sua enfasi e la sua gestualità. Daverio ci propone un viaggio mentale coinvolgente, comunque la si pensi sui temi proposti, dove il confronto delle idee suggerito dall’intellettuale diventa motore per l’elaborazione dell’opinione da parte del lettore che affronta il breve (155 pagine) e ricco testo.
Ma veniamo a qualche passaggio significativo.
Prima conversazione
L’autore esordisce parlando di Brexit, in verità non usa quel termine e parla di “sofferta decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Europa”. Lo scrittore si domanda se esiste ancora l’Europa e se abbi a ancora un senso rimanere europei o non sarebbe meglio tornare a essere locali. Interessante il confronto tra la tesi sostenuta a suo tempo da Winston Churchill, e cioè che l’Europa debba essere l’Europa delle regioni, in opposizione all’ipotesi di Charles de Gaulle che sosteneva il concetto di un’Europa delle Nazioni. L’Europa di domani forse non sarà l’Europa delle Nazioni, ci dice Daverio prendendo spunto da Catalogna e Baviera, ma potrebbe diventare una unione di tante regioni che Sir Winston Churchill già chiamava gli Stati Uniti d’Europa con tutta la complessità e la storia della cultura europea. E poi, aggiunge Daverio, abbiamo provato per sessant’anni a seguire il modello del generale francese, ma “finisce sempre che Macron si mette d’accordo con la Merkel e ci tira il bidone, quindi…”
L’equilibrio è una bilancia dei poteri, è una realtà che consiste essenzialmente nell’esistenza di una pluralità. Se questa pluralità si perde, anche l’unicità svanisce. […] Nel frattempo il sogno della formazione dell’Europa si è trasformato in una enorme, triste burocrazia bruxelloise. A Bruxelles si decide se possiamo o meno mangiare il formaggio di fossa, formaggio al quale sono talmente affezionato che sarei pronto a rinunciare alle mie cinque lingue e alle tradizioni europee per salvarlo. Sulla curvatura delle banane, che pure viene decisa a Bruxelles, potremmo aprire un dibattito, perché dritta o curva sempre banana è, ma il formaggio di fossa ha un suo parente stretto, il lardo di Colonnata, pure lui guardato male dalla Comunità Europea, perché non è fatto nella plastica prodotta in Germania, ma nel marmo di Carrara. […] Cioè, noi abbiamo da offrirgli una cosa importante che è la cultura, perché in fondo gli aggregati culturali che hanno determinato la nostra Storia sono talvolta molto più importanti delle tensioni che viviamo quotidianamente.
Daverio propone il 1848 come data di nascita dell’Europa moderna. L’anno delle Cinque giornate di Milano è pure l’anno delle rivolte di Palermo, Napoli, Berlino, Dresda, Vienna, Budapest, Polonia, Parigi. Un fenomeno pressoché simultaneo di ribellione che fu possibile perché per la prima volta esisteva una interconnessione di un mondo intellettuale in fermento che serviva di stimolo alla politica “le poste funzionavano bene, la comunicazione era veloce e l’Europa si sollevò tutta contemporaneamente. Per la prima volta dagli anni di Carlomagno avvenne un fenomeno che legava fra di loro i vari popoli d’Europa”. Le radici della nostra identità, che portano al primo concetto di unificazione d’Europa, tentano di rafforzarsi anche per merito del grande poeta francese Victor Hugo che convoca a Parigi la Conferenza per la pace. Subito dopo la primavera dei popoli, con l’ondata rivoluzionaria del 1848, e quante anticipazioni nelle sue parole forse ancora troppo visionarie per quel tempo.
Seconda conversazione
“Non era poi così grigio il medioevo” sottolinea subito l’autore. Anzi, se dovessimo definire la nostra era, dovremmo farla iniziare proprio negli anni del Medioevo, anni in cui nascono la penna e il libro. Strumenti che rivoluzionano il mondo del potere che fino ad allora era basato su un equilibrio fra due sole realtà contemporanee: spada e croce (fede). Nella grande Europa cattolica unita, sotto un dibattito continuo fra il tentativo di egemonia tra papato e Sacro Romano Impero, emerge un terzo elemento del potere. Al sacerdotium e al gladium si aggiunge lo studium. L’Europa consacra questo nuovo terzo elemento di potere, in cui lo studioso, l’intellettuale diventa figura centrale. Al Medioevo siamo molto debitori. Fino all’anno Mille si era convinti che al suo scoccare sarebbe giunta la fine del mondo.
Con il capitalismo, di cui noi italiani siamo fra gli inventori principali, comincia una nuova epoca. Il grande Rinascimento ha luogo proprio all’inizio del Dugento. Si smette di pensare che il mondo debba finire. Sono gli anni nei quali si comincia a riscoprire il passato, sono gli anni nei quali i frati cominciano a girare per biblioteche e ritrovano i testi antichi, si impegnano a ridestare un latino decente. […] Sono gli anni che portano, all’inizio del Quattrocento, al nostro Rinascimento. La nostra identità vera ha il suo cuore, le sue radici, la sua nascita all’interno del Medioevo.
Insomma non era affatto buio il Medioevo, evo dove diventa fondamentale il libro. A quegli anni dobbiamo la nostra consapevolezza e parte della nostra Scolastica, la filosofia cristiana medioevale che favorì l’istruzione delle genti e la diffusione del sapere, creando l’uomo nuovo e moderno che cambia il suo rapporto con la società.
Noi diventiamo moderni nel Medioevo, quando al valore di res publica cominciamo a sostituire un valore fondamentale dell’individuo, che è il privato.
Terza conversazione
La storia dell’Europa è costantemente frutto dell’incrocio fra le qualità, fra i saperi, fra i sapori.
Daverio parla di musica, di storia, di architettura. Da Händel e Bach a Mazzarino e Re sole, dal Palladio e i Veneziani alla lenta inseminazione del gusto italico. Lo storico parla di un Settecento allegro, di un altro modo di concepire il mondo, di un contributo grandissimo che l’Italia porta alla cultura europea del secolo.
Tutte queste mutazioni in verità non sono altro che la lenta inseminazione di un gusto italico che è andato a formare altre culture in giro per il continente europeo. Di ciò oggi ce ne rendiamo poco conto, perché le informazioni trasversali sono sempre minori, si tende a sostenere che ciascun Paese ha un modo specifico di vedere il mondo.
La gente viaggia costantemente su e giù per l’Europa e tra questi i compositori e gli architetti. E tra i tanti esempi citati spicca la lingua universale del Palladio con il suo primo grande Neoclassicismo moderno che trasferì all’aria aperta una vita urbana piuttosto costipata.
I veneziani scoprono così un altro tipo di vita, scoprono il piacere della campagna dedicandosi ad aree diverse di produzione agricola, ma influenzeranno il mondo.
Quarta conversazione
Per approfondire le differenze e le contaminazioni fra i vari Paesi, un Daverio sempre più provocatorio afferma che il senso dell’Europa sta anche nei sensi. In altre parole: guardiamo, ascoltiamo, sentiamo, annusiamo e mangiamo in modo diverso dagli altri popoli e proprio in questo troviamo le nostre radici comuni. Daverio intitola la quarta conversazione: In Vino Veritas, in Cibo Sanitas e pone questo incipit per una Costituzione delle Regioni d’Europa: “L’Europa è la penisola occidentale del continente asiatico fondata sul vino”.
GENIALE, IRRESISTIBILE!
La tesi sostenuta dimostra come il vino modella la nostra identità europea.
Ciò costituisce un’ulteriore dimostrazione della capacità che possiede la Vecchia Europa di metabolizzare tutto oltre a essere l’ennesimo esempio del meccanismo di contaminazione che ci ha portato a essere quello che siamo.
E questo riguarda ovviamente anche il cibo: patate, fagioli, riso, foie gras e tanti altri ingredienti. Daverio passa in rassegna un po’ di dieta occidentale con un’occhio speciale all’Italia, protagonista nonsolo di spaghetti, pizza e gelato.
Da questo dovrebbe seguire una certa nostra fierezza, perché in fondo, se abbiamo insegnato al resto del mondo a bere vino e mangiare le ostriche, dimostriamo di avere già dato un certo contributo alla Comunità Europea.
E senza nemmeno dover coinvolgere grandi personaggi, chiosa Philippe Daverio, come il Michelangelo o il Galileo, se ci concentriamo alla dimensione dello stomaco continuiamo il percorso di scoperta del fondamentale contributo italiano all’evoluzione dell’umanità.
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