Ho avuto la fortuna di avere assimilato una cultura di agricoltura, basilare per il mondo della cucina. La pasticceria è perfezione, la cucina è fantasia, la pizza sta nel mezzo. (Carmelo Oliveri)
D: Carmelo Oliveri, come sei approdato al mondo della pizza?
R: Io sono di origini calabresi. Devo ringraziare i miei nonni paterni e materni che mi hanno dato il know how, la cultura e l’umiltà. Il mio nonno materno Mariano era responsabile di una azienda agricola nel Meridione. Lì ho imparato come si fanno a mungere mucche e capre e come si fanno i formaggi. Tutto quello che è cultura, la cultura intorno alla tavola. Parliamo del mangiare: salumi, maiale, tutto.
Quando parlo con i miei genitori o con gli amici del settore, dico sempre che non potevo diventare che cuoco o pizzaiolo. E poi in assoluto ho imparato dalle mie nonne, che facevano da mangiare sul fuoco, quindi su quelle stufe a legna che ritroviamo ancora qui vicino in qualche casa nel Trentino. La pasta fritta, i lievitati, i pani. Nel bagno c’era il forno in cui tutti, a giro, facevano il pane con la mietitura del grano.
Io vengo da quella cultura lì, che mi ha appassionato. Mia mamma? La più grande cuoca. Lei mi ha dato l’input definitivo. Ci doveva essere solo un collegamento, quando sono venuto al nord nel ’90. Venire al nord mi è servito per trovare il collegamento con la cultura del cibo già presente in me e per esprimerla al meglio.
D: Come è cambiato il mondo della pizza in questi ultimi anni rispetto a quando iniziasti a lavorare?

R: Parlando di forni, io ho cominciato a dodici anni o meglio ancor prima quando a sette/otto anni mi portavano a vedere i grandi forni di una volta per fare il pane biscotto. Oggi vanno di più i forni compatti e modulari. Parlando di pizza, diciamo che questo mondo è cambiato in maniera irreversibile dagli anni Ottanta a oggi. È cambiato moltissimo e meno male. Come ho detto molte volte in tante fiere: un piede bisogna lasciarlo indietro e uno in avanti per non perdere stabilità. Quello che è dietro, nel nostro passato, è quello che ci fa essere ciò che siamo oggi e non puoi cancellarlo.
E io ho avuto la fortuna di avere assimilato una cultura di agricoltura, basilare per il mondo della cucina. A livello di impasti negli anni ’80 non si parlava di lievito madre, poolish, biga. Ricordiamoci che la pasticceria è perfezione, la cucina è fantasia, la pizza sta nel mezzo. La pizza non è da meno, perché noi pizzaioli siamo in ambedue le cose. Tuttavia, ora vedo che troppi colleghi vogliono andare oltre, strafare per essere i fighi della situazione e invece a volte bisogna saper tornare sull’altro piede per ritrovare equilibrio e un certo criterio.
D: Le competizioni ti hanno visto grande protagonista in gare nazionali e internazionali. Ora sei passato in giuria al campionato del mondo.
R: Come dicevo, nel 1980 ho iniziato a fare il pizzaiolo e nel 1989 ho aperto la mia attività. Poi ho sentito il bisogno di migliorare e ho iniziato un corso presso una scuola prestigiosa. Finivo di lavorare alle 14 e poi andavo a Soave a seguire un corso per poi tornare la sera in pizzeria.
Lo dico sempre anche ai miei figli, chiedere con umiltà e cercare di imparare, anche di carpire ciò che vi può essere utile nella vita. Sbagliare e rialzarsi per costruire la propria strada. Io sono entrato nel circuito delle gare con questa filosofia, senza mai vergognarmi e con il desiderio di mettermi in gioco con coraggio. Gareggio ancora all’estero, mentre sono in giuria al mondiale in Italia. Speriamo di ritornare alle competizioni il prima possibile e con il virus sconfitto.
D: Gli allori più belli?
R: Prima di tutto la vittoria all’International Pizza Challenge di Las Vegas 2011, senza sapere una lingua, senza amicizie, con il solo aiuto di mio fratello che vive in Canada. Mio fratello arrivò secondo e mi dimostrò cosa vuol dire avere un rapporto familiare forte, una famiglia numerosa unita anche se viviamo sparsi per il mondo. A Las Vegas vai a competere con il meglio dell’America, dell’Europa e di tutte le Nazioni. Nello stesso anno ho fatto due terzi posti: alle Olimpiadi e al Mondiale.
A Las Vegas, proprio come in Francia quando vinsi l’europeo, è stato tutto molto più avventuroso. Ti dovevi misurare con cose che non ti saresti mai aspettato. Attrezzature e prodotti usati erano meno studiati a tavolino, c’era spazio per l’improvvisazione. Mi ricordo che mi consegnarono una bottiglietta d’acqua Fuji dicendomi di provarla perché secondo gli organizzatori l’impasto sarebbe venuto meglio rispetto a quello preparato con l’acqua dell’acquedotto. Me la portai in albergo, quella bottiglietta, e la misi in frigo per usarla in gara. Che ricordi, che pelle d’oca mi viene ancora a parlarne.
D: Carmelo, nella tua vita tanta formazione data e tanta formazione ricevuta.
R: Dagli anni Ottanta in poi c’è stata una escalation graduale e incredibile anche nella formazione. Prima si parlava di SEGRETI, SEGRETI, SEGRETI. Una manciata di questo, un pizzico dell’altro. Continuando così non si sarebbero raggiunti i traguardi di oggi. La formazione è cultura di scambio, di confronto, di crescita reciproca.