Dopo che Adam al mangiâ dal arbul

1° Parte

– Che cosa staranno dicendo? Non capisco. – fece a Patty.

– E dai, che t’importa? Andiamo via.

Marco si addentrò con più convinzione nella piccola chiesa del paese per assistere alla funzione.

Dopo che Adam al mangjâ dal arbul, il Signor Diu al clamâ  l’om: “Indulá sestu?” dissal. I rispuindé l’om: “O ai sintut il to pas tal zardin e o ai vut rivuart parcè che o soi crot e o soi lat a platami” – leggeva il sacerdote al leggio.

 

Patty era tanto colorata da sembrare appena uscita da un film di Walt Disney. Il jet sorvolava le montagne innevate, mentre lei sfogliava un romanzo. Dal berretto di lana bianca, calcato sulla testa, scendevano i lunghi capelli sciolti. Una sciarpa verde le cingeva il collo, dando al viso un’espressione soddisfatta. Le lunghe maniche del giubbetto di lana e del maglione le coprivano quasi metà delle mani, piuttosto piccole e con unghie mangiucchiate.

2° Parte

Si distraeva, guardando dal finestrino le cime quasi interamente coperte di bianco, come panna su cioccolata fondente. Fra la foschia, atterrava l’apparecchio all’aeroporto di Parigi. I lunghi stivali scamosciati neri le coprivano parte dei jeans, chiusi al polpaccio da una fibbia d’acciaio, per affrontare il clima gelido che l’aspettava. Un paio di giorni di sosta in Francia per sbrigare delle faccende personali e avrebbe ripreso il suo viaggio verso la Spagna, dove l’attendeva il fidanzato, in congedo, come lei già riteneva.

Patty non avrebbe mai pensato che sarebbe stato così difficile dire basta a quella storia. Eppure credeva di essere ferma nella sua scelta, in parte voluta e in parte suggerita da chi le voleva bene.

3° Parte

Sognava di starsene un po’ tranquilla. Non si trattava nemmeno di chiedere la luna per sé e di giocarci a palla nei momenti di svago. Solo si augurava che un po’ di solitudine portasse anche l’amore di Marco alla soglia di guardia e poi alla rassegnazione, come era successo a lei. Le continue minacce singhiozzate di mettere fine all’indecisione e di andarsene con quella compagnia così diversa da Marco e contro la quale lui non avrebbe avuto alcuna arma per combattere nascondevano un forte dubbio. – Segno che lo ami ancora – le diceva all’orecchio uno spiritello dispettoso che talvolta le si mimetizzava fra i capelli – Stai zitto. – ringhiava Patty fra i denti – Finiscila di sussurrare, lasciami in pace. – Patty era arrivata alla frutta, parlava fra sé, piangeva e rideva come una pagliaccia del circo.

4° Parte

La coppia si ricongiunse direttamente in albergo, in una zona centrale di Barcellona. Dalla stanza che li ospitava nel quartiere Eixample la vista non era un granché. L’aveva voluta Patty la camera più silenziosa dell’hotel e la sua insonnia non perdonava disattenzioni. La finestra si affacciava sul cortile interno dell’Abbot, qualche pianta dava allegria al gres color cotto reso fantasioso dagli incastri geometrici degli azulejos. Alzando lo sguardo, non potevano non rimanere colpiti dai tre edifici che facevano da sfondo. Signorile il più distante, medio popolare il più grande posto al centro, su un poggiolo del quale notavano la bandiera del Barşa, e decisamente popolare quello alla loro destra, con l’intonaco consumato e gli abiti appesi ad asciugare al sole autunnale.

5° Parte

Patty godeva degli ultimi raggi di sole dell’ennesimo giorno beato che le concedeva Dio. L’odore di fognatura della hall si era fatto spazio anche nella loro stanza. Entrava fumo di sigaretta chissà da dove, chiusero la finestra. 

– Ora che faccio? – si disse. 

Patty aprì di nuovo, sperando che quel fottuto fumatore la smettesse d’inquinarle un respiro già inquinato. Tossì a lungo, lasciò tracce sul fazzoletto. Intanto comparvero degli asciugamani rossi sui davanzali della classe media, altri panni sparirono invece dalle ringhiere popolari. Si erano poi mai visti dei cenci appesi su case signorili? No, e questa non doveva essere certo la loro prima volta. 

Poche ore dopo la cena generosa, si ritrovava a scrivere alcune righe nel cuore della notte, maledicendo tutto ciò che aveva ingurgitato con superficialità assieme a Marco, all’alleanza spagnola e alla loro cultura alcolica. Ripensò all’anfiteatro di nuvole che aveva avuto la fortuna di ammirare, così ben scavato nell’immensità del biancore sottostante sul quale si sporgeva non prima di stamane.

6° Parte

Lo stomaco si spegneva, incantato dal ricordo ancora fresco. 

– Gradisce ancora qualcosa? 

Aveva scandito la hostess a ciascun passeggero, facendolo con la precisione di un metronomo. 

– Gradisce ancora da bere, signora? – precisò direttamente a Patty.

– No grazie, sono a posto – le rispose confusa. La mano era pronta e la mente seguì rapidamente il suo tremore continuo.  Trascorso qualche minuto, fece per iniziare.

– Dovrebbe riporre il tavolinetto signora. È cominciata la fase di atterraggio. 

– Grazie, non me n’ero accorta. Lo chiudo subito, ci mancherebbe. – ridacchiando sommessa.

Riuscì comunque a terminare di rileggere ciò che aveva iniziato le notti precedenti e le ginocchia le diedero supporto, mentre il vicino sbirciava, fissandola a lungo.  

– Ma chi se ne importa – pensò – non cadrà quest’aereo per colpa mia. Ancora un minuto, dai.

“La sala conferenze traboccava di gente. Chi parlottava con il vicino, chi preparava del materiale per prendere appunti, l’ambiente brulicava di persone. 

7° Parte

Nel cuore del Marais aveva luogo l’evento annuale. Parigi era la città designata per quel nuovo incontro e nessuno voleva mancare all’appuntamento. Alla fine del corridoio principale dell’Aula Magna i conferenzieri erano già pronti, microfoni alla mano. Un grande lampadario d’epoca pendeva al centro della scena, sui lati luci al led. L’elegante tavolo in legno massiccio, già presidiato dal leader, contrastava con le vecchie poltroncine imbottite degli intervenuti. Le ribaltine delle sedute creavano un armonioso e vivace contesto, ideale per quel frangente culturale della Francia contemporanea. Il mondo attorno a lei sembrava impazzito, in disordine. Tutti erano pronti per i vari interventi, anche Patricia lo era e attendeva il turno della sua relazione. Il leader iniziò a convocare. Ecco, toccava a Patricia. Partecipare a una conferenza condivisa con il pubblico e aprirsi al prossimo non era così semplice per lei. Spargere nebbia per evitare domande era una sua specialità, preferiva far commentare gli altri. 

Alla fine del suo contributo sull’economia globalizzata, disse un paio di cose sui gilets jaunes. Lo riteneva pertinente alle questioni poste.

Un movimento spontaneo, giusto – disse Patricia – nato da un appello libero sui social che invita a scendere in strada con un simbolo distintivo, il giubbotto giallo catarifrangente che tutti abbiamo l’obbligo di avere in macchina. Un movimento creato dal nulla, senza partiti politici o sindacati alle spalle, senza leader. Il popolo francese e basta, con ogni tipo di classe sociale: disoccupati, pensionati, casalinghe, studenti, operai, dirigenti.

Subito la smentita di tutti i conferenzieri.

– Saccheggiatori, incendiari, sovranisti anti Macron, destabilizzatori della République, fascisti. L’inserto sui contestatori non era piaciuto alla commissione. Si sentì un’idiota. Patricia lasciò il palco con vergogna e sprofondò in un momento di confusione.

8° Parte

L’odore di cui erano intrise le scale del metrò quasi la fecero desistere dal seguire l’indirizzo. La conferenza non era terminata da molto e ancora aveva lo stomaco in subbuglio, ma la guida ben fornita di nomi e indirizzi corruppe ogni suo desiderio di astenersi dal cenare. Al numero 8 di rue de Mabillon, Patricia trovò le Petit Coure. Scese le scale che attraversavano un giardino estivo narrato da fantastiche ortensie e dalla frescura dei gerani. Al di sotto del livello stradale, l’elegante brasserie con sedie morbide e divanetti rosso porpora ad accompagnare tavolini in finto alabastro ed ebano. Nessuna tovaglia, ma grandi tovaglioli bianchi e posate in acciaio dal ricercato disegno geometrico. Ecco un amorino appeso al centro di un enorme orologio posto in mezzo alla parete di sinistra, su cui poggiava la scala che dava accesso al piano superiore. La ringhiera, in ferro battuto, era un rigo musicale con un accenno di note che risaltavano sapientemente su tutto quello spatolato agrume chiaro. I cuscini in tinta appesi su dei porta tendaggi neri consentivano la più comoda postura. Le luci soffuse, aranciate resero piacevole tutta la sua cena. Dalla misticanza al salmone fino al cognac, dozzinale, ma a buon mercato rispetto agli altri colleghi della lista. Pagò il conto, salasso abituale nella Parigi che lei pure amava, senza accusare danno. Se ne uscì verso la Rhumerie e il suo Saint Etienne Vieux de Guadeloupe. Scrisse a lungo pensando a Greta e al suo amore per lei. Consumò matita e rhum, guardando con ribrezzo il topolino che saettò d’improvviso dentro al bar. Pianse quanto bastava. La proprietaria Genette incassò il denaro solo in chiusura. Diede a Patricia il resto della banconota da cento. Genette le sfiorò con leggerezza la mano destra facendole scivolare tra le dita la banconota da venti. Patricia Gomez guardò a lungo Genette con occhi spenti, poi abbassò lo sguardo e scese faticosamente dallo sgabello del bancone. Stette per circa un minuto aggrappata a quel legno, mentre intorno roteava il mondo. Alzò nuovamente lo sguardo verso di lei e le sorrise. Qualche incertezza ancora, un’ultima occhiata alla donna, poi con fare stanco uscì dal locale ormai vuoto e si diresse nuovamente verso quel puzzo di urina.
Spostandosi un po’ a sinistra e un po’ a destra, cercava aderenza al terreno.

9° Parte

A Patricia rimanevano quarantacinque minuti per rientrare nel suo splendido appartamento nel Marais. Quarantacinque minuti oppure tre quarti d’ora. Sì, pensando a tutto quel veloce susseguirsi di secondi incalzanti contenuti in quarantacinque minuti, le sorrideva l’idea del tre quarti d’ora. E, comunque, che cosa poteva fare o dire in quarantacinque minuti? In quarantacinque minuti si possono fare e dire molte cose, è vero, c’è anche il tempo per tradire un’illusione. Anche del discreto sesso si può praticare in quarantacinque minuti. Tuttavia, Patricia sosteneva che per godere di un discreto sesso ci volesse almeno un tre quarti d’ora. Se però pensava a quanto erano lunghi i suoi preliminari, i quarantacinque minuti o i tre quarti d’ora non le sarebbero bastati nemmeno per assaporare una delle preziose bottiglie con le quali era solita conquistare i più delicati palati. Si poteva divorare una bordolese di Chatoneauf du Pape in quarantacinque minuti? E forse in tre quarti d’ora sarebbe stato diverso? Nossignore non erano così che funzionavano le cose col Chatoneauf du Pape. Poi, dove mettere le belle passeggiate sulla Rive Gauche? E forse in quarantacinque minuti si poteva trangugiare un profumato Pinot Noir o ancor peggio scolarsi in tre quarti d’ora una bottiglia di Champagne. 

In quarantacinque minuti nemmeno una beatitudine si sfiora, ma si può possedere con vigore. Cosa davvero indegna, anche per i tre quarti d’ora. In quarantacinque minuti s’incrociano gli occhi, si battono con dolcezza le palpebre, sale la pressione sanguigna, inizia una deglutizione difficile, si bagnano i desideri. Forse in quarantacinque minuti qualcuna ha già finito da un pezzo, ma non è così. Nossignora non è così che si fa.

In tre quarti d’ora il conversare solo inizia un poco a farsi meno serioso, il rosso vivo che viene dal calice si fa più complice, il rumore attorno sembra scemare come un aereo che s’allontana da una pista resa rovente, come rovente inizia a farsi il gioco. In tre quarti d’ora le labbra, prima secche sono ora umide come le gocce di rugiada che ammorbidiscono il sesso delle amanti. Le mani si avvicinano, il vino scende, la tensione sale, l’eros fa capolino, gli occhi non si staccano più. Si cerca il contatto, ma sono già passati i quarantacinque minuti? Quelli sì, sono i tre quarti d’ora che non devono passare mai. È il tempo che si ferma su un petto che palpita, su bocche rosate e frasi che a nessuna più interessa ascoltare o interpretare, avvolte così in un attimo narcotico. Scivolano le dita una sull’altra, i desideri si accarezzano soffici.

10° Parte

Si riescono a fare molte cose in quarantacinque minuti, ma la poesia che hanno i tre quarti d’ora sono dell’altra dimensione, quella che si protrae nel tempo. E compaiono fantasie, e scompaiono tabù, e si volatilizzano i vestiti, e si materializzano i sogni. Un fluido erotico inebria le menti, eccita le amanti e le soggioga ai suoi voleri. Meri pretesti diventano ars amandi e i corpi si uniscono giocosi come rare farfalle dalle ali di cuore. 

Ora, su che vino sarebbe caduta la scelta e quale dimensione temporale avrebbe incoraggiato il nuovo incantesimo d’amore? Confusa, Patricia Gomez si ancorava alla sua illusione, ricordando gli ormai troppi quarantacinque minuti trascorsi e consacrando tutti i tre quarti d’ora vissuti. Prima della Rhumerie, prima del suo ultimo brivido”. 

– Patty non vieni a dormire, stai sempre a scrivere. Fa male non dormire. Hai pensato ai tuoi neuroni? Non si rigenerano abbastanza – le disse Marco, accarezzandole i capelli.

11° Parte

Marco pareva ancora molto innamorato di lei, anche se durante la cena si era preso una mezza cotta per un’altra ragazza del nucleo di amiche con cui erano usciti. Affrontò con dignità le grandi risate di tutte. Patty e Marco avevano ballato insieme accompagnati da un paio di brani melodici cantati dal vivo. Marco l’aveva tenuta piuttosto stretta a sé, tanto da sentirle l’odore dei capelli e averle rimarcato la sensualità del Guerlain preferito, il più adatto a lei. Le aveva messo la mano destra quasi in fondo alla schiena, mentre la guidava sul parquet del locale. Tutte vedevano come per Marco ballare con Patty fosse meraviglioso. Era l’unico uomo del gruppo e c’erano molte ragazze, tutte le ex compagne di squadra di lei. Qualcuna chiacchierava sui divanetti, alcune si ubriacavano al bar, altre quattro ballavano tra loro in coppia. Uno spettacolo notato facilmente anche da tutti gli altri avventori del locale. D’un tratto Patty e Marco si estraniarono. Soli. Lui riuscì ad abbracciarsela un po’ e lei contraccambiò l’abbraccio. Rimasero uniti lì in piedi anche dopo la fine della musica lenta. Patty rimase con il bicchiere vuoto in mano e guardandolo fisso gli disse: – Non ora. Tornarono a sedersi con il gruppo, e mentre tutte chiacchieravano lui pareva entrato in una dimensione beata che nella prima parte della serata sembrava non appartenergli.

12° Parte

Appena seduta, Patty riempì di vino il bicchiere vuoto. Una volta, due volte. Non smise un minuto di conversare con le amiche. Verso le due decise di lasciare tutte le donne al loro tavolo di godimento, compresa la ragazza che piaceva molto a Marco e che le aveva già eccitato i sensi. Patty non voleva contese, almeno per quella sera. Raggiunse Marco in stanza, si spogliò, una breve doccia e s’infilò nel letto. Cominciò a stuzzicare Marco, giusto il necessario. Si mise sopra di lui, come era solito andare bene a entrambi, e cominciò a darci dentro fino a sfinirsi. Quando Patty riaprì gli occhi il sole era già alto nel cielo. Bevve subito un bicchiere d’acqua, sentiva la bocca arsa e amara. Era ancora un po’ sbronza e non riusciva a raccapezzarsi. Marco era lì che l’aspettava, leggendo il giornale nel salottino della stanza. Patty soffocò uno sbadiglio, lo salutò con gambe molli e poi tornò a dormire. Si addormentò senza sapere che a Marco in quel momento riappariva la sua Carnia e quel ricordo, sufficiente per convincerlo ad andarsene. Si domandò: “E cui ti aial dit que tu jeris crot? Alore tu as mangjat di chel arbul che ti avevi inibit di mangiá!”. I rispuindè l’om: “E je stade la femine che tu mi as metude dongje che mi à dat di chel arbul, e jo o ai mangiat!”.

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Sono imprenditore nel settore metalmeccanico per la ristorazione professionale e da oltre trent’anni seguo l’omonima azienda di famiglia, riferimento industriale del Made in Italy dal 1952. Leggi tutto

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